arturo di manuela guglielmi.
ARTURO
La cucina buia in un mattino di sole che in poco tempo sarebbe diventato pomeriggio. Sul tavolo giocatori di subbuteo freschi di pittura e una bottiglia d’aranciata vuota, scorci di Bologna dipinti nella luce della canicola estiva, pennelli, tempere, il cellulare di Arturo spento e pieno di sogni: l’ultimo, uno scatto ore 04:00 dell’amico Renato dai grandi occhiali, caschetto bianco e sorriso, intento a preparare la sua celebre crêpe dalla base fresca con crema, fragole e mascarpone, in un locale dal sapore bretone, storia e rifugio dei biassanot dagli anni Settanta all’anno in cui un microrganismo mise il mondo seduto su un divano; uno dei posti preferiti di Arturo, forse perché posizionato sull’unica strada non ortogonale del centro di Bologna. Non erano le strade dritte e convenzionali a disegnare le notti di Arturo, il suo andare seguiva l’alternanza di luci e ombre delle colonne dei portici, le note di una bossa nova suonata sotto la luce della luna, l’indugiare lento nelle curve della città verso i luoghi sconosciuti ai più. E come spesso accadeva, anche quella notte al termine del suo girovagare, scoprire e assaporare, aveva parcheggiato il furgoncino ed era entrato nel regno dei dolci sogni le cui vetrate illuminavano la notte di portici e strade, come un faro accende il nero dell’oceano e come le finestre di una casa solitaria interrompono il buio della boscaglia, la sua luce alta penetrava la notte e invitava i nottambuli ad entrare nel regno delle prelibatezze, dove il tempo si fermava davanti al calmo e misterioso andare che accompagnava Renato e i suoi aiutanti, mentre la città dormiva già da ore.
A quell’ora della notte ancora si discuteva, si creava e si progettava nel dettaglio. Uno sconosciuto era ispirazione, confidente e, se l’intesa fosse stata perfetta, affondando il coltello nella crema chantilly, anche socio in affari di un progetto immenso che sarebbe svanito al risveglio. Ma ciò che Arturo amava di più era sedersi al bancone e ascoltare le storie di Renato su Bologna, i racconti dei suoi viaggi in Bretagna e le leggende del castello in cui abitava perché, come il re di una fiaba, il destino l’aveva fatto vivere in un castello.
Lo scatto di Renato era preceduto da quello con Arturo accanto ad un quartetto di ragazzi dall’anno di nascita spostato di un ventennio, coetanei nella notte. Tra loro, una coloratissima camicia anni Settanta, il dj della Mescla intento a cambiare vinile e la sua compagna francese, lunghissimi capelli castani: una Carla Bruni lontana dai riflettori, seduta a bere Moscow Mule in quel piccolo locale ai piedi del ponte, in un quartiere che la notte aveva dimenticato; anche se a pochi passi dal centro storico, suo alter ego vivo vibrante, in una città dove tutto si raggiunge con una pedalata di bicicletta, il ponte sembrava delineare una separazione tra il mondo dei vivi da quello dei morti al calar del sole. Accanto a loro, una ragazza alta, capelli ricci e rossi dall’aria un po’ irlandese e un altrettanto altissimo ragazzo, scappato dalle guerre fratricide del Mali. Il locale era buio, fumoso e dagli arredamenti scuri, ma la foto era un’esplosione colorata di caratteri, pelli, capelli e bellissime camicie. In quell’atmosfera calda ballavano e cantavano, inebriandosi tra i cocktail, risultava difficile parlare e anche chi non fumava faceva una pausa fuori; si conoscevano da più di dieci anni e amavano trascorrere le ore del buio sognando di cinema in bianco e nero, musica e leggende. A volte passavano mesi prima che si ritrovassero, presi ognuno della propria esistenza ma quando accadeva erano scintille che si imprimevano nella notte ricordi eterni e magnifici.
Un altro scatto ancora precedeva quei momenti: un’immagine sfocata di un canale illuminato dalla luce della luna adagiato sotto il ponte della bionda. Anche se in quel punto ai confini della città, lontani dal riparo degli edifici, il freddo tagliava la pelle, gli amici di Arturo restarono ad ascoltarlo mentre raccontava di quel luogo di piacere per i naviganti di un’epoca lontana, dove da dentro le mura si portava la seta fino in Oriente. Le storie di Arturo scivolavano sull’acqua fino ad arrivare al centro del mondo, nel Triumvirato di Bologna, tra verità e leggende. Mentre osservavano le stelle, passandosi una birra di mano in mano, si sentivano sfiorare dai fantasmi dei popoli che di lì erano passati e di quelli che lì erano rimasti, diventando i loro avi. Era soprattutto di notte che Arturo attraversava le porte che aprivano al passato, dove luoghi dimenticati apparivano come case, strade, alberi e cippi lasciati dal tempo.
Il viaggio iniziava con l’apertura della portiera del suo furgoncino, da dove uscivano note di samba e ciò che restava delle sue pantagrueliche notti di locali come il sotto le stelle, dove dagli anni Settanta agli anni Ottanta centinaia di nottambuli fremevano per partecipare alle sue feste. Il suo modo bizzarro di vestire e la sua musica, riportavano in vita quel passato dorato dove si discuteva dei dischi da mettere e dei cocktail da inventare. Arturo pensava che l’epoca dei suoi giovani amici avesse un diverso modo di divertirsi che giudicava un po’ passivo, imbrigliato da permessi, carte e paure, più costoso e preconfezionato. Fatto di colori tenui, era un divertimento dove lo chic aveva preso il posto dei sogni, raccontava la sua epoca come un incanto finito con l’apertura delle discoteche e ancor di più con l’arrivo del telefono prêt-à-porter. I suoi amici amavano salire su quel furgoncino e farsi trasportare dove solo Arturo poteva condurli, lui che non aveva mai smesso di sognare e di guidare per le sue strade, lasciando a terra chi non aveva il coraggio di seguirlo.
È di mezzanotte la foto successiva. Una casa sui colli di Bologna dove la musica si mescolava all’odore della birra e della carne arrosto, Arturo con le cuffie sulle orecchie e le mani sui dischi. I proprietari avevano invitato tutte le persone di loro conoscenza estendendo l’invito ad altre due per ogni invitato e così facendo il prato, da dove le stelle si confondevano con le luci della città in basso, era diventato quasi un paese, tanto da chiedersi se in città fosse rimasto qualcuno. Un grande falò riscaldava i primi incontri, i più non conoscevano nessun altro e chissà quanti amori e amicizie sarebbero nati quella notte. Sui divani dell’interno, coppie che si baciavano e anime solitarie impaurite dal freddo che speravano in un’iniziativa di cui loro non erano capaci.
Arturo sapeva di essere uno dei migliori dj della città, era felice e libero di sperimentare, si accendeva all’idea di condividere parte del suo sapere e ricevere richieste. La sua felicità era fatta anche del dolce pensiero che se quella notte qualcuno si fosse innamorato sarebbe stato anche merito dei suoi dischi. E tutto quel viavai di persone instancabili, curiose e piene di emozioni lo facevano sentire a casa perché niente come la notte permetteva di sentirsi liberi e pieni. Ma chi arrivava a quell’ora avrebbe sentito ancora per poco la selezione di Arturo perché presto sarebbe stato sostituito: la notte era troppo lunga per viverne solo una in un solo posto. Arturo era un moltiplicatore di notti, Arturo e le mille e uno notti, scatole cinesi, una dentro l’altra che le rendevano infinite. Per ogni notte mille notti. E per chi arrivava a quell’ora, quel posto doveva apparire come una promessa. Dall’ultima curva della strada fasci di luce colorate illuminavano l’asfalto, uscivano dalle finestre seguendo il ritmo della musica. La chiamarono la casa dalle finestre che ballano. Una promessa mantenuta da quel posto che, passo dopo passo, appariva ai tardi arrivati sempre più sorprendente ed epicureo, dove la libertà stava anche nel decidere se essere solo spettatori. Erano tutti così presi da qualcosa o qualcuno che ognuno poteva essere sé stesso, decidendo di entrare in contatto solo con qualche anima davvero affine, si poteva essere il re lucertola o l’uomo invisibile.
Un’altra foto era stata scattata sotto una pioggia battente, Arturo e alcuni amici si erano riparati nel furgone, in attesa che il temporale si calmasse. Quel rifugio era come una notte bolognese, una volta saliti a bordo la vita diventava pura improvvisazione e istinto in un unicum spazio-temporale dove tutto poteva accadere. Un lunghissimo sogno ad occhi aperti fatto di scoperte musicali e di storie universali, accogliente e custode di preziosi tesori, pieno di travestimenti e immagini rubate allo scorrere del tempo. Una ricerca sincera a volte disperata, di un verso da scrivere, di un confidente, di un’idea, di un liquore per riflettere su una decisione, dell’amore, di una coscienza politica, di qualcuno di simile o qualcuno così diverso da allontanarsi dalla noia di sé stessi sempre uguali. Come la notte bolognese, un indugiare lento, libero e curioso, capace di scrivere canzoni, dipingere, unire le idee, generare movimenti, animare le piazze e le strade di danze improvvisate e di felicità fatta di anime e corpi.
Prima del temporale Arturo aveva lavorato sul suo grande tavolo in cantina, una foto polverosa ritraeva un confuso insieme di tele, pennelli, cornici, legni, trucioli, ritagli di carta, piccole seghe, colle e scritte a mano su sacchetti di pane: erano i preparativi di un’esposizione che avrebbe realizzato con il suo amico fotografo la notte di Natale.
La sera di Arturo era iniziata qualche ora dopo il tramonto lavorando per ciò che davvero gli permetteva di pagare le bollette, Arturo allenava pallavoliste cariche di vita e di drammi da cambiamenti dell’adolescenza; tra una ricezione e un attacco era un confidente che sapeva trasmettere la tranquillità di cui avevano bisogno, con la sua ironia, col non giudicarle mai. E quella sera in cui i suoi modi non erano bastati, a fine allenamento le portò in una trattoria di via del Pratello; luci calde, l’ambiente di legno e il tiramisù di fine cena, alleggerirono le incomprensioni. Parlarsi con i telefonini spenti in borsa aveva nuovamente ricreato lo spirito di squadra, con ago e filo, un tagliere di mortadella, crescentine e un tris di tortelloni, si era con pazienza ricucito ciò che era stato strappato.
La loro tavola allegra era in mezzo ad altre tavole piene di vite condivise. Tutto quel parlare, quel rumore, quello stare assieme, quelle mille notti in una notte, tutto era iniziato solo dopo che Arturo aveva dipinto l’addormentarsi del giorno e allo sparire dell’ultimo bagliore di sole, aveva posato i pennelli per passeggiare da solo tra le strade medievali del centro. Dove gli uffici chiusi facevano da sfondo al fermento dell’ora dell’aperitivo, alternandosi alla quiete dei piccoli vicoli. Nelle case a quell’ora i biassanot si riposavano, studiavano, leggevano, preparavano i loro sogni, attendendo che la notte diventasse scura e profonda e solo allora uscire.
Nel frattempo, nella cucina di Arturo il mattino era diventato pomeriggio, il telefono ancora spento e il profumo del caffè che si confondeva a quello delle lasagne. Arturo aveva aperto la finestra per scaldare il viso al sole, osservava i suoi giocatori, le sue tele e pensava che quella notte fosse stata troppo corta, che bisognava fermarla, raccontarla, pensò di prendere carta e penna e iniziare un diario delle sue notti. Poi chiuse gli occhi e pensò che non ci fosse il tempo per questo, bisognava semplicemente viverne un’altra. Nelle notti dei biassanot non c’era spazio per i ricordi, la vita era un fiume in piena che andava vissuto così com’era. Perché mai aver bisogno di un ricordo di qualcosa che era presente all’infinito, di ciò che non aveva un tempo, che del tempo si faceva beffe. Quel vivere al calar del sole nella sostanza immutato di generazione in generazione, fatto di qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto portare via. Una tela infinita sulla quale dipingere, scrivere, danzare, rifugiarsi e cullarsi senza regole né limiti, la notte.